La vera gloria

mio articolo da CALCIOSTRUZZO del 19 maggio 2010

Siamo a tre giorni dall’appuntamento più prestigioso del calcio europeo e nel corso delle ultime settimane si sono chiusi i vari campionati nazionali del Continente e di gran parte del Sud America, come dire del vero pianeta-calcio. Unica eccezione il Brasile, ove sono terminati i tornei statali e ha appena preso il via il Brasileirao, questo mentre la Copa Libertadores sta per arrivare alle semifinali, anche se s’interromperà durante i Mondiali per riprendere in piena estate boreale.

E’ questo il periodo in cui si scrive la maggior parte dei nomi dei nuovi campioni sugli Albi d’oro di mezzo mondo. Milioni di tifosi un po’ dappertutto riempiono le piazze per celebrare i propri idoli freschi di un nuovo trionfo mentre molti più milioni di altri tifosi si mordono le mani perché le loro squadre non ce l’hanno fatta magari per un pelo (chiamasi palo, rigore non fischiato, tiro svirgolato) e mai come quest’anno le cose sono davvero andate così.

I principali campionati d’Europa si sono infatti risolti sul filo di lana, all’ultima giornata. Stessa cosa è successa in Argentina e in Uruguay (benché in quest’ultimo caso una doppia finale si sia resa necessaria solo perché i due tornei stagionali non erano andati alla stessa squadra). Il regolamento, poi, fa sì che i campionati statali in Brasile si risolvano sempre ai playoff, quindi il campione alla fine è chi vince in finale. Finale che mai come in questi giorni ci riporta a Madrid e ai novanta minuti che faranno tornare a casa una fra Bayern e Inter da megatrionfatrice e l’altra quasi da fallita, perché quando si perde le parole, come si dice, stanno a zero.

Se la relativa importanza di una finale nell’assegnare vera gloria oltre a un titolo è assolutamente evidente, ci sono altre considerazioni da fare. A favore sia di chi vinca un torneo che di chi non ci riesca, perdendo una finale, venendo eliminato prima oppure arrivando staccato di qualche punto in classifica se si tratta di un campionato. Certo, non sempre ci sono alibi per non aver vinto, ma siamo comunque davvero sicuri che vincere sia la sola cosa importante? Chi l’ha stabilito?

Non mi sembra che la Grecia campione d’Europa verrà ricordata al pari dell’Olanda che negli anni Settanta ha perso due finali mondiali o del Brasile dell’82, uscito al gironcino dei quarti. Non credo nemmeno che il Milan campione d’Italia con Zaccheroni o l’Inter ugualmente scudettata di Mancini abbiano dato al calcio più del Chievo di Delneri o della Roma di Spalletti. Fermo restando che, con la dovuta attenzione al potenziale di ogni squadra visto che il Chievo a differenza della Roma non ha mai potuto ambire a vincere lo scudetto, anche la capacità di affermarsi conta eccome. Sennò le competizioni non esisterebbero. Ma non sta tutto qui.

Non stupisce come da questa parte dell’oceano non abbondino i premi alla bravura, per esempio al miglior giovane e al miglior allenatore del mese (con l’eccezione dell’Inghilterra, ma quello è un Paese sportivamente civile che non ha paura di essere quel che è). Ricordo il Bravo, che veniva assegnato al giovane che più si distingueva nelle competizioni continentali, ma quando oggi vedo che il Pallone d’Oro e il World Player of the Year Award vengono assegnati (nel caso del primo da giornalisti, quindi in molti casi da dipendenti) solo a chi gioca in una squadra che vince, che negli anni degli Europei e dei Mondiali anche la conquista della Champions League passa in secondo piano e nel caso del Pallone d’Oro preferibilmente vincono gli attaccanti, ecco, mi cadono le braccia.

Venendo ai fatti, uno o due punti in classifica, quando termina il campionato, non sono niente. E se chi vince può dirsi se non altro il più efficiente, non si può certo affermare che la squadra che ha finito uno o due punti sotto abbia fallito. Stessa cosa per chi vince o perde una finale.

Purtroppo negli ultimi anni tanti, troppi sono i segnali che indicano che innanzitutto per vincere si farebbe di tutto. L’Inter non ha più italiani, le squadre italiane comunque di vertice sbandierano con orgolgio un paio al massimo di giovani cui vengono fatte giocare giusto un po’ di partite. Questo mentre l’Arsenal, con un’età media bassissima, contiuna ad arrivare fra i primi esattamente come ai tempi di Bergkamp e Wright, tirando su ragazzi che a vent’anni o poco più hanno già esperienza internazionale. Come succede in Sud America, che è diventato il vero vivaio di tutte le nostre Società, che forti dell’Euro possono permettersi di prendere talenti brasiliani, cileni e argentini già forgiati per un tozzo di pane, tanto poi riconosceranno ai loro Club percentuali sulle vendite successive da cui comunque ricaveranno sempre enormemente di più. Roba da Cortés, Pizarro e Conquistadores vari… Nel frattempo, non dimentichiamolo, si è pronti a dare addosso ai campioni del mondo di Germania 2006 perché alla vigilia di Sud Africa 2010 sono troppo vecchi, manco fosse colpa loro e fingendo che ci siano forze nuove di esperienza e affidabilità per rimpiazzarli.

Ma torniamo al punto. Sabato a Madrid si disputeranno la Champions due squadre indubbiamente solide ma che hanno beneficiato di errori arbitrali colossali per essere lì. Attenzione, niente a che vedere con la loro forza, ma siamo certi che chi alzerà la Coppa meriti più di chi è uscito per altrettanti errori, ma contro? Oppure che il gioco di entrambe sia davvero meglio di quello di Manchester United, Arsenal, Barcellona e Chelsea, la cui stagione passata, a proposito, è ugualmente dipesa da eccezionali sviste? O della stessa Fiorentina anch’essa vittima di Ovrebo? O del Real Madrid, sfortunatissimo contro il Lione e che non a caso viste le voci di questi giorni è la squadra che più ricorda l’Inter?

E’ chiaro che un campionato e una Coppa debbano andare a chi fa il necessario per vincerle. A chi arriva fino in fondo. Ma siamo certi che non si debba dare altrettanto spazio al calcio inteso come sport e non come competizione? Rari sono i casi in cui le vittorie finali, celebrate con incoronazioni assolute, sono coincise a una qualità davvero superiore: penso all’Ajax degli anni Settanta, al Liverpool dei primi Ottanta e al Milan degli ultimi, Ottanta. Nemmeno il Barcellona dell’anno scorso è arrivato a tanto, pur avendo mostrato grandi cose, e se non avesse vinto tutto ma proprio tutto (fra cui un’Intercontinentale ma solo ai supplementari) forse adesso sarebbe meno esaltata e si accontenterebbe di un posto di rilievo negli almanacchi o nel Guinness dei primati.

Per finire, dunque, il calcio vive anche di titoli. E di piazze stracolme di gente in tripudio, cosa che avrà lunga vita perché dipende direttamente dallo spirito di chi le riempie, cioè i tifosi. Quelli che contano i titoli e sono pronti a sfottere chi ne ha meno. Se Calciopoli nel caso dell’Italia è un campanello d’allarme circa la relativa importanza di questi calcoli (così come il Porto graziato e il Portsmouth invece affossato, ci mancherebbe), più in generale è però necessario riaffermare il valore sportivo che non passa dai riultati letti alla televisione senza che il 99,9% periodico di chi li legge abbia visto le partite ma da quel che scrivono gli allenatori sulle lavagne e da quel che fanno i giocatori con la palla. A dispetto di ogni arbitraggio, di certi finanziamenti per le campagne acquisti, di tutte le sentenze e di qualsiasi palo neghi una Coppa del Mondo a pochi secondi dalla fine a una squadra fenomenale che tutti noi continuiamo a prendere a esempio, come accadde al Monumental di Buenos Aires nella finale di Argentina ’78.

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