SOS italiano

mio articolo da COMUNITA’ ITALIANA di settembre 2010

Non sono soltanto i talenti italiani a scarseggiare. Parallelamente alla loro paventata estinzione, dal mondo del calcio nostrano sta scomparendo anche l’italiano. E se tante responsabilità circa il tenore dell’informazione si possono addossare ai troppi giornalisti che cavalcano ogni polemica quando addirittura non la innescano, la colpa della morte della nostra lingua quando si tratta di commentare il calcio, sempre a questi ascrivibile, è ancora più grave.

Parto dalla sensazione che la maggior parte dei cronisti si sia adagiata, incapace di proporre i servizi di un tempo, difficili da confezionare ma decisamente interessanti; d’altra parte può far conto sulla contemporanea assuefazione del più dei lettori a notizie scontate, omologate e ripetitive. Al punto che non è chiaro se quel che ci è proposto sia la causa o la conseguenza di un andazzo generale. E’ vero, poi, che su internet si può accedere con la stessa facilità ai siti stranieri e a quelli di casa nostra. Ma non è questo un buon motivo per affidarsi esclusivamente a un improvvisato slang internazionale, sia perché ne va dell’italiano che perché il rischio di prendere una cantonata è altissimo. Mi viene il sospetto che un po’ per adeguarsi al dilagante impoverimento culturale e un po’ per sopperire a una scarsità di contenuti si sia puntato sulla mera spettacolarizzazione espositiva.

Gli obbrobri che segnalerò sono tutti collegati fra loro perché figli dello stesso approccio superficiale alle cose, ma desidero comunque partire dalle basi, evidenziando innanzitutto come non si stia più onorando l’italiano, lingua che resta la nostra e oltretutto, notoriamente, basta a se stessa. Senza tirare in ballo Dante, i toscani, la Crusca, il latino e il greco, basterebbe ricordare l’eleganza espositiva di Giuseppe Albertini, esiliato nella televisione svizzera, per capire come il lessico corrente sia invece misero e strampalato, in ogni caso inadeguato. Non pretendo che come lui si parli ancora di casacche invece che di maglie, soprattutto quando queste ultime hanno più caratteristiche tecniche di un’auto fuoriserie; sarebbe sufficiente che si parlasse di rimessa laterale e non di ‘touche’. Anche solo perché quest’ultima, nel calcio, non esiste. Non se ne parla nei regolamenti, non somiglia a quella del rugby nell’esecuzione e prima ancora nelle modalità di assegnazione. Questo scempio linguistico apparentemente risibile a confronto di quelli più recenti è stato capace di resistere per anni, come un mangidischi nell’era del blu-ray, al punto che quando lo sentiamo ormai sorridiamo compiaciuti come davanti a un oggetto vintage che ci ricorda i bei per quanto kitsch tempi andati. C’è da spaventarsi, quindi, a immaginare cosa partoriranno le menti indebitamente globalizzate di chi decide come si debba parlare (anche) di calcio oggi. Oggi che l’uscita spettacolare è la base di ogni conversazione. Oggi che i più si esprimono citando chi fa monologhi al cabaret, consapevoli di poter essere capiti al volo. Ma ignari del fatto che chi fa cabaret mira a mettere in ridicolo le mostruosità dei nostri abiti.

Con la prospettiva di una Finale del Mondiale FIFA per Club fra l’Inter di Milano e quello di Porto Alegre, mi viene subito in mente il famoso Triplete di cui tutti, in Italia, hanno iniziato a parlare non appena si è avuto il sentore che i nerazzurri avrebbero potuto vincere tutte e tre le competizioni cui partecipavano la scorsa stagione, come il Barcellona aveva fatto l’anno prima. In Inghilterra, per esempio, dicono Treble, e in Italia esiste la parola ‘tripletta’. Perché non utilizzarla? Già che ci siamo, cosa dire poi della ‘remontada’ preferita all’italiana ‘rimonta’, o ‘rincorsa’? Arriveremo a parlare di ‘rally’ come negli Stati Uniti se una delle nostre squadre dovrà recuperare in classifica rispetto a una americana? Ma che provincialismo!

Penso anche ai ‘playmaker’ e ‘pivot’ del basket, che indicano rispettivamente colui che imposta il gioco e il centro che di norma è anche il giocatore più alto, spesso preferiti nel corso di tele e radiocronache calcistiche a ‘regista’ e, che so, ‘torre’. Anche la famosa ‘giostra dei rigori’ ha fatto il suo tempo, oggi c’è lo ‘shoot-out’. Il risultato, parziale o finale che sia, è diventato lo ‘score’. E da quando le partite di Real Madrid e Manchester United sono trasmesse in Italia tanto quanto quelle di casa nostra, il vivaio, fosse anche dell’Atalanta, è la ‘cantera’, più raramente l’Academy. Forse per non essere ripetitivi, pesanti nella narrazione. Sarà…

Il rischio, però, è che si finisca anche per fare un grande pasticcio, mischiando e fraintendendo discipline, ruoli e competizioni che non sono chiari ai giornalisti per primi. A tutto svantaggio di chi ascolta, perché alcuni si aspettano ancora di essere bene informati da chi dell’informazione ha fatto una professione. Un esempio. L’inglese Community Shield, partita non ufficiale che si gioca da più di cent’anni, viene regolarmente paragonata alla Supercoppa italiana istituita giusto alla fine degli anni Ottanta del Novecento… E che ha regole diverse. In questo caso l’imprecisione è davvero grave e si fa pessima informazione: per semplificare, si travisa completamente lo spirito di questo trofeo straniero e si trattano gli ascoltatori da beoti incapaci di andare oltre.

La facilità con cui si sta liquidando la nostra bella lingua in favore di un’esterofilia esasperata fa coppia anche con un’approssimazione grottesca. Mai sazi di citazioni, molti giornalisti finiscono per fare traduzioni improprie. “Al campione!”, esclamò uno di questi provando a rendere in italiano ‘a lo campeón’, titolo del Mundo Deportivo che invece indicava come il Barcellona avesse giocato ‘da campione’. Durante i Mondiali del Sud Africa, poi, ho riso tantissimo sentendo che un telecronista di punta parlava di Luis Fabiano, l’ex San Paolo e attuale nazionale verdeoro, come di ‘el Fabuloso’, del tutto incurante del fatto che questo giocatore è brasiliano e che quindi è e va chiamato ‘o Fabuloso’… Ma questo giornalista è lo stesso che parimenti a milioni di italiani pronuncia alla spagnola Juan e Julio Cesar, gli ex Flamengo ora rispettivamente alla Roma e all’Inter, altri brasiliani.

Si può concludere che non è solo una questione di lingua, ma piuttosto di marasma totale da cui non si sa più come uscire. Sarà che c’è la convinzione che si debba stupire a ogni costo e che tutto passa rapidamente di moda, come l’ultima suoneria per telefonini, ma non sanno più come raccontarci cosa. Sempre più spesso si sentono dire cose del tipo ‘come si direbbe nel…’ e giù con una sfilza di sport che non somigliano minimamente al calcio. Per far contento qualche funambolo della globalizzazione linguistica, mi verrebbe da dire che i giornalisti hanno per lo più perso il senso della loro ‘mission’…

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