mio articolo da GIORNALISMO 2012 del 1° marzo 2012
Nelle ultime settimane ha tenuto banco la vicenda di Luis Suarez. Il giocatore uruguaiano del Liverpool era stato multato per quasi cinquantamila euro e squalificato per otto partite a causa degli insulti razzisti che avrebbe rivolto a Patrice Evra, difensore franco-senegalese del Manchester United. Quindi la prima volta che si sono reincontrati, in occasione di una partita fra le loro due squadre, non ha voluto stringergli la mano. Per finire, poi, si è pentito pubblicamente del suo grande rifiuto.
Analizzando a fondo il caso, in verità simile a molti altri, è possibile capire qualcosa di più del calcio e in fondo anche della società di oggi. Limitarsi a stabilire se Suarez abbia dato del negro a Evra con l’intenzione di offenderlo e non solo per sfogarsi verbalmente in un momento di concitazione lascia il tempo che trova. La possibilità che ci è offerta è piuttosto quella di approfondire la questione, senza fermarci ai sintomi ma invece andando alla radice di un fenomeno che non riguarda una singola persona bensì tutti, anche chi non è coinvolto direttamente nell’accaduto.
Cercando di ampliare l’analisi, vanno innanzitutto messi a confronto i due mondi a cui appartengono i protagonisti della vicenda. Evra è un francese di origini africane cresciuto nella nostra Europa, dove le questioni razziali sono una ferita aperta a cui non si è ancora trovata soluzione e che mette ancora a disagio molta gente. Suarez viene invece dall’Uruguay, paese in cui fino alla seconda metà del XIX secolo si riversò un’ondata di gente caucasica e di colore, quest’ultima sia dal Sud America che direttamente dall’Africa; come risultato, la sua popolazione ha anche una forte componente nera e per via della succesiva mescolanza di razze è tra le più variegate al mondo. E’ oltretutto cresciuto nel Nacional di Montevideo, società tradizionalmente legata alla popolazione autoctona e che in base a ciò arrivò ad accogliere anche calciatori con la pelle scura prima di qualsiasi altra. Venne infatti fondato nel 1899 come primo club uruguaiano creolo in contrapposizione a quelli costituiti e gestiti dagli immigrati europei che erano arrivati per motivi commerciali – inglesi, spagnoli, tedeschi o italiani che fossero – e che fino ad allora avevano monopolizzato il movimento calcistico locale; bastò poi un solo decennio perché aprisse a ogni ceto e razza, al punto che nel 1911 già contava un calciatore di colore e suo simbolo diventò uno che era detto ‘Indio’. Non si dimentichi inoltre che erano quelli anni in cui la Nazionale uruguaiana, di cui oggi Suarez è la punta di diamante, era l’unica al mondo in cui già giocavano dei neri.
Tutto può essere, ma viste le premesse è difficile pensare che Suarez possa essere un vero razzista. Con riguardo a questa particolare accusa c’è poi un altro fattore da considerare, su cui non a caso hanno insistito tutti i suoi compagni di Nazionale (compresi neri e meticci) nel tentativo di riabilitarlo. Nei paesi sudamericani in cui si parla spagnolo, se si ha la pelle scura si viene chiamati ‘turco’ o ‘negro’ e se si hanno gli occhi a mandorla invece ‘chino’. E’ questo che si dice, ed è gergo: niente a che vedere con la razza in sé quanto, semmai, col semplice aspetto. Senza che provi imbarazzo o rabbia chi lo dice né si offenda chi se lo sente dire, cha anzi si considererebbe discriminato di fronte ad un anomalo e quindi sospetto trattamento di favore. Non è semplice spiegarlo a chi vive in un altro continente, men che meno farglielo accettare – anche se dai sudamericani che si trovano in Europa ci si aspetterebbe un utilizzo oculato di queste espressioni perché è buona creanza tenere in considerazione anche le ragioni di chi ospita.
In base a quanto riportato, l’accusa di razzismo a Suarez ha dei punti deboli. Quel che è sotto gli occhi di tutti, assolutamente innegabile e condannabile al di là di ogni dubbio, è invece la sua scorrettezza. E’ un simulatore di prima categoria, il che si nota ancor più perché è anche molto forte e non avrebbe bisogno della furbizia per fare bene. Rifiutando di dare la mano a Evra, poi, ha dimostrato di essere anche permaloso e irrispettoso degli sforzi fatti per risolvere una vicenda molto scomoda niente meno che da Liverpool e Manchester United, i due club più rivali d’Inghilterra. E il suo rammarico via Twitter il giorno dopo la partita sa tanto di imposizione da parte di un ambiente, quello della sua società, che ha una più che centenaria e rispettabile storia e non è ragionevolmente disposta a perdere la faccia per l’atteggiamento di un giocatore a cui è già stato concesso fin troppo credito.
Più che di possibile razzismo, allora, bisognerebbe parlare di accertata antisportività, ineducazione e uso leggero della parola – essendo quest’ultimo uno dei mali maggiori della modernità, di cui chiunque ha (e molti danno anche) prova ogni giorno in situazioni diverse. Nel complesso si tratta di costumi i cui effetti vanno ben oltre un insulto estemporaneo e, diffusi come sono, col passare del tempo stanno pian piano cambiando anche il volto al calcio. Più che concentrarsi sulle malefatte di un unico colpevole, amplificate dalla sua popolarità, bisognerebbe allora cercare le vere radici di questo degrado. E non si dovrebbe pretendere dagli altri quel che nelle nostre teste e innanzitutto nei nostri cuori non è ancora chiaro: in fondo siamo tutti protagonisti dello stesso mondo e di esso responsabili, qualsiasi ruolo ricopriamo a seconda di chi siamo e cosa facciamo. Venendo al razzismo e alle situazioni cosiddette al limite, da un lato non si vogliono sentir dire certe esplicite parole ma dall’altro il gergo edulcorato che si utilizza per esempio quando si ha a che fare con la condizione dei meno fortunati sembra più un rimedio formale che la dimostrazione di una raggiunta evoluzione. Senza girarci attorno, il problema non è la parola ‘negro’ che fino a vent’anni si pronunciava senza timore e non lo sarebbe nemmeno ‘cieco’ invece che ‘ipovedente’. Si è capito che Suarez non sa porsi come dovrebbe, ma chi lo è al di là di formule verbali spesso fini a se stesse? Finché non sarà chiaro questo, non cambierà nulla e nessuno: di certo non quelli come Suarez, ma nemmeno gli altri.
C’è dell’altro. Non si è perdonato a Suarez di aver dato del negro a Patrice Evra, ma nessuno ricorda che in Inghilterra la maggior parte dei tifosi avversari lo chiama regolarmente Patricia, al femminile, in evidente segno di scherno. E nessuno si scandalizza per il fatto che in seguito ad insulti razzisti lanciati dai tifosi non s’interrompano le partite come più volte minacciato dagli organi di controllo: i casi di Zoro ed Eto’o, che si rifiutarono di continuare a giocare per via degli improperi che piovevano dagli spalti senza che l’arbitro intervenisse, sono stati dimenticati. In Italia, poi, si sono abbandonate campagne tanto moralizzatrici quanto ridicole per la loro evidente impraticabilità come quelle a favore del cosiddetto terzo tempo nel calcio e contro la bestemmia. Trascorsi un paio di mesi dalla loro introduzione, pochi fra giocatori e allenatori sono riusciti a restare in campo qualche minuto oltre la fine della partita per stringere la mano agli avversari e lasciarsi con un sorriso qualsiasi fosse stato il risultato; in quanto alle imprecazioni, invece, si è passati da un paio di squalifiche comminate qua e là dagli organi disciplinari, che avevano tutta l’aria di essere vere e proprie punizioni esemplari, alle semplici scuse dei commentatori televisivi al che i microfoni di bordo campo raccolgono esclamazioni ben più pesanti di quelle che al Grande Fratello comporterebbero l’immediata squalifica.
La decadenza dei costumi è il vero vincitore, fino ad ora, e va ben oltre le malefatte di un singolo giocatore come Suarez, per quanto scorretto sia. Anche nello sport, complice la contaminazione dell’informazione peggiore e maggiormente diffusa che finisce per creare una visione e una sensibilità a cui i più si adeguano, regna l’impunità. In base a questa, fra le tante cose, si può anche dire tutto perché tutto può essere ritrattato e la slealtà passa per bravata.
Per concludere, Suarez e la reazione al suo atteggiamento sono lo specchio di un deterioramento diffuso e dell’incapacità di valutare le cose per quel che sono e quindi di arginarle se sbagliate. Sarà difficile invertire quest’andamento perché i veri cambiamenti partono dai singoli mentre di recente gli stimoli sono recepiti, vengono dall’esterno e, come visto, sono spesso negativi. Per fortuna però c’è anche molto d’altro, addirittura di opposto. E’ grande il rammarico visto il corso che è stato dato alle cose, per cui il buono va scovato in mezzo a tutto il male che si tende a propinare, ma è ancora maggiore il sollievo all’idea che la soluzione c’è e che in molti, partendo da se stessi e andando contro la tendenza generale, stanno già facendo qualcosa.
Trackback
[…] Andrea Ciprandi] CondividiCondivisioneDiggShare on TumblrEmailStampaLike this:LikeBe the first to like this […]