Alla ricerca dell’Italia perduta

mio articolo per COMUNITA’ ITALIANA di Rio de Janeiro

In attesa di scoprire se agli Europei l’unione farà la forza, il calcio italiano ha chiuso i battenti della stagione per club 2011-12. E le indicazioni che si possono trarre da quanto accaduto negli ultimi dieci mesi sono tanto numerose quanto di segno spesso opposto.

A vincere scudetto e Coppa Italia sono stati rispettivamente Juventus e Napoli. Si tratta di due società che stando all’Albo d’Oro non facevano loro un trofeo da 9 anni la prima e addirittura 22 la seconda. Da allora, anche se per motivi diversi entrambe hanno anche conosciuto le categorie inferiori. I loro ultimi trionfi sono quindi da considerarsi come il coronamento di una lunghissima rincorsa alla ricerca dell’eccellenza perduta, una cavalcata che pensando soprattutto alla serie C in cui era sprofondato il Napoli prima che De Laurentiis lo rilevasse risulta anche commovente.

Menzione obbligatoria, poi, per l’Udinese, che è il modello finanziario e tecnico a cui dovrebbe ispirarsi il calcio italiano di questi tempi. Potendo contare su limitate riscorse economiche e nonostante la scorsa estate avesse venduto i suoi gioielli, tenendo fede a un progetto ha ottenuto la seconda partecipazione consecutiva ai preliminari di Champions League.

Tornando a Juventus e Napoli, hanno interrotto il dominio delle milanesi a cui erano andati, fra tutt’e due, gli ultimi sette scudetti assegnati – sul campo o in tribunale che sia stato. E proprio Milan e Inter, con la Roma che di recente aveva sollevato un paio di Coppe Italia, sono lo specchio di un calcio italiano in piena rifondazione anche se a differenza dei nuovi padroni del pallone nostrano sono arrivati a questa fase per via di gestioni tecniche imperfette e non causa di forza maggiore (non troppi soldi da investire) o in seguito a sentenze.

Fatta eccezione per la Champions League conquistata dall’Inter ormai già due stagioni fà, le fallimentari campagne europee di nerazzurri e rossoneri unitamente a quelle di ogni altra squadra italiana abbia tentato l’avventura continentale negli ultimi anni sono il rovescio di una medaglia che si vorrebbe guardare sempre e solo dal lato splendente. Non è quindi un caso che dalla prossima edizione di Champions i posti riservati all’Italia saranno soltanto tre di cui uno, fra l’altro, dipenderà dall’esito dei preliminari. Troppo evidente il divario con le superpotenze spagnole ma anche con le altre rappresentative iberiche, che comprendendo le portoghesi hanno portato a casa 11 delle ultime 20 coppe europee assegnate tra Champions ed ex UEFA. Guardando ai risultati, stesso divario ci separa dalle inglesi: negli ultimi otto anni hanno piazzato almeno una squadra in finale di Champions tutte le volte tranne una, senza considerare che in questa stagione per loro travagliata a vincere è stato il Chelsea.

Mentre l’Europa riservata alle Nazionali, per quanto sorprendentemente, potrebbe anche essere conquistata nel giro di poche settimane, quella per club dovrà di certo attendere. Nel frattempo sarebbe bene gettare solide basi partendo dalle competizioni interne, che a detta di tutti gli osservatori continuano a essere caratterizzate da grandi valori tattici e in second’ordine tecnici ma sono deficitarie in quanto a modernità. E’ come se il nostro movimento si fosse involuto, incapace di trovare alternative alle scarse possibilità di investimento che in verità, però, a turno tartassano tutti i paesi dell’Unione – compresi quelli calcisticamente all’avanguardia. La cosa fa specie se si pensa ai successi che stanno raccogliendo molti nostri rappresentanti all’estero. Tanto per citare le maggiori affermazioni, Spalletti, Mancini e Di Canio hanno appena vinto i campionati in cui hanno allenato e Di Matteo addirittura ha conquistato la Champions League, questo mentre l’accoppiata Trapattoni-Tardelli portava la nazionale irlandese agli Europei.

Memori anche di quanto fatto da Capello e Ancelotti e con un occhio a Lippi, da un lato è giusto provare orgoglio ma dall’altro non ci si può che rammaricare che siano soprattuto le fortune altrui ad essere fatte da noi. E’ positivo, ma è anche un peccato; e viene automatico dedurre che a non funzionare allora sia il nostro sistema, visto che il talento non si discute. Insomma, volendo considerare il bicchiere mezzo pieno si può dire che il male è circoscritto ruotando innanzitutto intorno all’incapacità di credere in quei progetti che altrove, dove passo dopo passo arrivano a dare i loro frutti spesso proprio grazie a nostri allenatori, ammiriamo. Confidiamo allora che chi di dovere faccia quel piccolo passo costituito innanzitutto da volontà e pazienza, forse le uniche due virtù che ci mancano ma in ogni caso quelle che più di qualsiasi altra possono tornare a farci grandi in assoluto.

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